Hai mai provato quella sensazione di vuoto quando una persona a cui tieni smette improvvisamente di risponderti?
Un messaggio lasciato in sospeso, uno sguardo che si spegne, una presenza che si fa muta.
Per qualche secondo non capisci, poi inizi a chiederti: ho fatto qualcosa? perché si è chiuso così?
Quello che accade dentro di noi in quei momenti ha origini molto più antiche di quanto pensiamo.
Ed è proprio ciò che mostra uno degli esperimenti più noti della psicologia: lo Still Face, ideato da Edward Tronick alla fine degli anni ’70.
Ecco cosa succede nello Still Face experiment
Una mamma siede di fronte al suo bambino di pochi mesi.
All’inizio gioca con lui: lo guarda, gli sorride, gli parla con tono affettuoso. Il piccolo risponde felice, ricambia lo sguardo, vocalizza, si muove con entusiasmo.
Poi, all’improvviso, la mamma cambia espressione: il suo volto si fa immobile, privo di emozioni.
Non parla, non sorride, non reagisce.
Il bambino, inizialmente, resta perplesso. Poi comincia a fare di tutto per richiamarla: sorride più forte, emette suoni, tende le braccia, come a dire “dove sei andata?”.
Ma la mamma continua a restare ferma.
Dopo pochi istanti il piccolo entra in difficoltà: si irrigidisce, distoglie lo sguardo, si tocca le manine per calmarsi, e infine scoppia in un pianto disperato.
Quando la mamma torna a interagire, il bambino si calma — ma ci mette un po’ a fidarsi di nuovo.
Cosa dimostra
Lo Still Face mostra quanto presto i bambini imparano che le emozioni si regolano insieme a qualcuno.
Nei primi mesi di vita, la mamma (o il caregiver) non è solo una presenza fisica: è il suo regolatore emotivo.
Attraverso lo sguardo, la voce, il volto, aiuta il bambino a capire e gestire ciò che sente.
Quando quella risposta scompare, anche solo per un momento, il piccolo sperimenta uno stress profondo.
Non è la mancanza di stimoli a far soffrire, ma l’assenza di connessione.
L’importanza della riparazione
Il messaggio più importante dell’esperimento non è “non distrarsi mai”, ma un altro:
la sintonizzazione perfetta non esiste, ciò che conta è tornare indietro.
Tutti gli esseri umani sperimentano momenti di distanza, incomprensioni, “volti immobili”.
Ma se dopo la rottura c’è una riparazione – uno sguardo che si riaccende, un “ti ho sentito”, un gesto che ristabilisce il contatto – la relazione diventa persino più solida.
Il bambino (e poi l’adulto) impara che le emozioni possono essere forti, ma si possono attraversare.
E da adulti?
Ogni volta che l’altro “smette di guardarci”, che si chiude nel silenzio o non risponde più, il corpo ricorda quella stessa esperienza primitiva.
Prima protestiamo, poi ci ritiriamo, infine ci sentiamo sbagliati o soli.
Non è debolezza: è memoria relazionale.
Ecco perché, anche nelle relazioni adulte, serve riconoscere e riparare.
Dire “scusa, ero chiuso”, “ti ho fatto aspettare”, “ci sono di nuovo”.
Piccole frasi che hanno lo stesso valore di un sorriso ritrovato tra madre e bambino.
In sintesi
Lo Still Face ci insegna che la regolazione emotiva non nasce da soli: nasce tra le persone.
Un volto che risponde ci fa sentire al sicuro, un volto che resta muto ci spaventa.
Ma ogni volta che qualcuno torna – con uno sguardo, una parola, una presenza – il messaggio si riscrive:
“non sei solo, ti vedo ancora.”
💭 Una riflessione per te
Quando ti capita di chiuderti, di “spegnere il volto”, cosa ti succede dentro?
E quando è qualcun altro a farlo con te, come reagisci?
Forse non si tratta solo del presente: forse è una vecchia memoria che chiede di essere vista, capita, e finalmente… riparata.
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